Luce

Mote di gruppo nanou, luci di Fabio Sajiz

Motel di gruppo nanou, luci di Fabio Sajiz

Come quando di notte si sosta nel limbo fra la veglia e il sonno. Una soglia, potrebbe essere la luce nello spazio scenico, qualcosa in grado di aprire un varco nella mente per permetterle di vedere. Il nostro è uno sguardo assuefatto per sovraccarico di dati visivi, costantemente impegnato a guardare e ormai incapace di sostare nella visione. Tutto è di fronte a noi, i contorni sono chiari, lo sguardo è nel pieno delle sue facoltà. Eppure manca qualcosa. Ci scopriamo malati: vorremmo che tutto fosse nitido, senza pieghe e ombre. Cerchiamo fasci di luci bianchissime che permettano di fugare ogni dubbio, come di fronte a una scena del crimine improvvisamente illuminata a giorno durante una retata delle forze dell’ordine.

Tutto è lì di fronte a noi, eppure non lo dobbiamo vedere mai tutto: questa è la grande occasione della luce in teatro e di chi ne possiede le chiavi, come fosse lo strumento in grado di rivelare e celare allo stesso tempo. A teatro, grazie alla luce, potremmo trovarci di fronte al set del racconto La lettera rubata di Poe, dove il miglior modo per nascondere è non farlo, manomettendo lievemente l’orizzonte visivo quotidiano. Cos’altro è, se non questo, la visione aurorale di Le Sacre, pensando soprattutto alla velatura di Preludio? Oppure la stasi luminosa di Dolce Vita, una bolla senza apparenti variazioni, ma che a ben guardare muta e cresce con l’aumentare della tensione ritmica coreografica e musicale? Forse la luce deve incoraggiare una ricerca, invitando la danza a saggiare lo spazio e chi guarda ad acuire la vista? Come nella scatola nera di Solo Goldberg Improvisation, subitaneamente bagnata negli angoli e nelle intercapedini da ovali di luce bianca, tagliata da rette sagomate, ritmata da fade out che lambiscono il buio. Una luce che sappia scardinare la rassicurazione del punctum barthesiano, quella coincidenza fra forme e contenuti che pare conferire il vero senso all’immagine: pensiamo di averne trovato uno, ci gratifichiamo con noi stessi, ma poi a ben cercare ne troviamo un secondo, poi un terzo e un quarto, e così via (i rettangoli luminosi di Altissima Povertà?).

Come quando di notte si sosta nel limbo fra la veglia e il sonno. Si crede di avere capito tutto, c’è una rivelazione che sembra riguardarci fino alla radice dei capelli. Ci si sveglia e i contorni appaiono subito meno nitidi, così inizia la nostra ricerca. Questo, una luce può fare.

Lorenzo Donati

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