Zero

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Self Unfinished di Xavier Le Roy


Fa paura l’idea di tornare indietro e perdere tutte le solide certezze di cui ci siamo persuasi, che ci siamo trascinati fino a oggi e cui ancora oggi ci aggrappiamo. Sono certezze che abbiamo cristallizzato nelle nostre ossa facendone memoria, intellettiva e corporale. Fa paura ma al contempo affascina la possibilità di potersi ripulire, ripartire da zero e reimparare tutto: gli affetti, la consistenza del mondo e il nostro modo di approcciarsi a esso. Ci attrae in certi casi della vita, a volte, al punto da ambire bramosamente a questo azzeramento di quel che siamo diventati per poter ricominciare da capo nella speranza di diventare un uomo o donna nuovi: ritrovare una perfetta – poiché informe – neutralità embrionale. «L’ellisse altro non è che un cerchio molto speciale i cui due fuochi si sono avvicinati a tal punto da sembrare uno solo», diceva la filosofa e matematica Ipazia di Alessandria, e così ci pare lo “zero” con la sua tensione tra due poli, tra due dimensioni paragonabili a quelle che anche un danzatore vive nel momento della ricerca, nello studio del gesto denudandosi dei cardini e delle ali che la tecnica ha tracciato sul suo corpo.

Il nudo oggi rischia di non parlarci più. L’uomo sta perdendo la capacità di coglierne il senso di semplicità e di tiepido dono per attribuirgli invece una dimensione forse forzatamene vigorosa con una moltitudine di significati. Basti pensare al nudo scenico, grado zero del costume teatrale, che a volte perde l’essenziale senso di gratuità e elementarità. E così come dopo un amplesso cerchiamo l’ordine in quella fase grado zero di silenzio e tattilità tra due corpi nudi, così dopo una vita travolta dalla dinamicità della conoscenza dovremmo sentire sempre più la necessità di fermarci, ascoltarci, riscoprire il nostro corpo e le possibilità di stare al mondo che durante gli anni abbiamo trascurato per intraprenderne una fra mille.

Alice Murtas

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